Dopo aver riassunto i fati e le domande della società attrice, il Tribunale procede a dare conto della motivazione.
Sul punto relativo alla violazione del divieto di concorrenza, il Collegio ritiene la domanda della società infondata, essenzialmente per due ragioni: l'oggetto concreto dell'attività esercitata dalla società, e l'assenza di un sistematico esercizio concorrenziale di atti coordinati.
Così, infatti, motiva il Tribunale: «in relazione all'attività svolta dalla società si deve far riferimento all'attività effettiva e concretamente svolta da quest'ultima, non rilevando esclusivamente le attività enunciate come possibile oggetto sociale nell'atto costitutivo,potendo al raffronto degli oggetti statutari essere assegnato al più una rilevanza essenzialmente indiziaria. Inolte, il rapporto concorrenziale deve essere concreto, includendo tutti gli aspetti qualificanti delle attività delle imprese prese in considerazione, ed attuale e, se potenziale, deve fondarsi sulla ragionevole prevedibile circostanza che in futuro l'attività svolta dall'altra società abbia una proiezione evolutiva da porla in concorrenza con la società».
Ma non solo: «Sotto altro profilo che maggiormente interessa in questa sede, alla luce del disposto della richiamata disposizione codicistica secondo la quale l'amministratore non può esercitare una "attività" concorrente, si richiede l'assunzione di una posizione che comporti il sistematico esercizio concorrenziale di atti coordinati e unificati sul piano funzionale non essendo sufficiente ad integrare la fattispecie il compimento di un solo atto in concorrenza che, al limite, può integrare ipotesi di conflitti di interessi o di violazione del generale dovere di fedeltà. In altre parole, per attività concorrente deve intendersi un complesso di atti compiuti in modo continuativo e sistematico e finalizzati ad uno scopo concorrenziale».
Affrontata la questione della asserita violazione del divieto di concorrenza, il Collegio passa ad esaminare l'autoliquidazione dei compensi dell'amministratore in assenza di una deliberazione dell'assemblea: partendo dal rilievo che l'art. 2389 c.c. rimette la determinazione dei compensi.all'atto della nomina o all'assemblea, richiama alcune decisioni giurisprudenziali che affermano un vero e proprio diritto soggettivo perfetto la pretesa dell'amministratore al compenso per l'opera prestata (Cass. 16764/2005 e Trib. Trapani 7/1/2010).
La regola è quindi che la carica si presume onerosa, anche se è ammessa la previsione statutaria di gratuità della carica gestoria.
Il Tribunale, anzitutto, riconosce che l'autoliquidazione di un compenso da parte dell'amministratore costituisca certamente un atto posto in essere in contrasto con l'atto costitutivo della società che demanda la determinazione a una deliberazione dei soci.
Ma questo non è sufficiente per accogliere la pretesa risarcitoria della società: occorre l'accertamento del danno subito dalla stessa.
E, considerato che nel caso specifico l'atto costitutivo non prevedeva la gratuità, in mancanza di una rinunzia dell'amministratore quest'ultimo avrebbe potuto rivolgersi al tribunale per la determinazione del proprio compenso: ove l'assemblea non provvede alla determinazione, l'amministratore può rivolgersi al Tribunale per la sua determinazione (Cass. 1647/1997; 2895/1991).
Nel caso specifico, «ai fini di accertare l'esistenza di un danno per la società, sarebbe stata necessaria la allegazione e la prova, da parte dell'attrice, della eccessività della somma autoliquidatasi dall'amministratore a titolo di compensi». Allegazione e prova non prospettate dalla società.
Il Collegio, attesa la congruità del compenso autoliquidatosi dall'amministratore, conclude per l'assenza di danni per la società.